Il CNI [I, p. 465, n. 4], cataloga una moneta da 5 lire datata 1861 per Napoli, come presente nella collezione reale. La moneta in questione è giudicata inesistente e Pagani [1982, p 28], poi ripreso da altri autori, ha ipotizzato che si tratti di un esemplare del 1864 con la data truccata. Potrebbe anche trattarsi di una svista del compilatore del CNI [v. supra]; tuttavia, occorrerebbe verificare la sua reale esistenza presso la collezione reale.
Nonostante la Convenzione con la Lega monetaria latina, causa le mutate condizioni economiche, prevedesse che, a partire dal 1862, le monete in argento da 2 lire, 1 lira, 50 centesimi e 20 centesimi dovessero essere coniate con il titolo di 835 millesimi ed avere corso legale limitato, quelle da 5 lire continuarono ad essere coniate con il titolo di 900 millesimi e ad avere corso legale illimitato. In questo modo la coniazione delle monete da 5 lire in argento veniva riservata unicamente ai privati, proibendosi implicitamente allo Stato di proseguirne per proprio conto la fabbricazione. Per effetto della L 788/1862, i privati conservavano la facoltà di richiedere dalle zecche dello Stato la coniazione delle monete da 5 lire; essi, secondo quanto stabilito dal RD 370/1861, dovevano pagare, quale diritto di coniazione, 1,72222 lire per ogni chilogrammo d'argento fino lavorato; cosicché, l'argento fino monetato a pieno titolo (900 millesimi), dedotti i diritti di coniazione, veniva ad avere il valore di 220,50 lire al chilogrammo. Pertanto, il valore intrinseco delle monete d'argento a pieno titolo era di 222,22222 lire al chilogrammo. Tuttavia, a seguito di quanto stabilito dalla Convenzione addizionale della Lega monetaria latina del 31 gennaio 1874, si cercò di limitare la coniazione di queste monete e, causa la diminuzione del prezzo dell'argento, si procedette al ribasso dell'accetazione in zecca dell'argento, da 220,50 lire a 218,88 lire al chilogrammo, al fine di impedire che i privati richiedessero ingenti coniazioni con lo scopo di lucrare sulla differtenza di prezzo fra il metallo e la moneta [Carboneri 1915b, pp. 296, 299, 340-341, 482]. Successivamente, fu emanata la L 2651/1875, che autorizzava il governo a dare esecuzione alla citata Convenzione del 1874, e, nel 1877, a seguito uno scambio di note diplomatiche tra i Paesi della Lega, si decise, sempre a causa del continuo deprazzamento dell'argento, di sospendere definitivamente in tutti gli Stati la coniazione delle monete da 5 lire. Fu comunque concesso all'Italia di eseguire nel 1878 un'ulteriore coniazione, poi effettuata sia a nome di Vittorio Emanuele II sia a nome di Umberto I, nel frattempo asceso al trono d'Italia. Infine, a seguito della Convenzione della Lega monetaria latina del 5 novembre 1878, fu sancita la sospensione definitiva della coniazione delle monete da 5 lire, salvo poterla eventualmente riprendere tramite l'accordo unanime degli Stati contraenti. L'Italia, ottenne a stento la facoltà di coniare, utilizzando delle piastre borboniche giacenti presso il Tesoro, un ulteriore quantitativo di monete da 5 lire, rinunciando ad utilizzare le altre monete antiche di argento in ulteriori coniazioni del genere [Carboneri 1915b, pp. 300, 348, 477, tab.]. Tuttavia, in Italia, queste monete furono coniate anche nel, 1901, 1911 e 1914.
Carboneri [1915b, pp. 880-881, tab. B1], riferisce che nel 1866 furono coniati a Torino 5.555 pezzi, per un totale di 27.775 lire, da 5 lire in argento; tuttavia, dato che non si conosce alcuna moneta di questo tipo con questa data, si suppone che il quantitativo in questione sia stato coniato con un'altra data.
Dal 1861 al 1873, l'esercizio delle zecche fu ceduto in appalto, dopodiché fu assunto definitivamente dallo Stato, che vi provvide direttamente con proprio personale. Il RD 288/1861 prescrisse i termini dell'appalto generale della monetazione d'oro e d'argento del Regno, rimasero deliberatarii, per la zecca di Torino, la Banca Nazionale; per quella di Napoli, la società Estivant di Parigi; per quella di Milano, la ditta Talanger et Cie di Parigi. Inoltre, fu effettuato un appalto (a cui ne seguirono altri) per la fornitura di 8 milioni di pezzi di bronzo da centesimi 10, che si aggiudicò la ditta Oeschger et Mesdach et Cie di Parigi, con fonderia e laminatoio a Biache Saint-Vaast. Tuttavia, a principiare dal 1862, l'esercizio temporaneo di tutte le zecche fu assunto, in forza della Convenzione del 21 dicembre 1861, dalla Banca Nazionale, che lo tenne fino al 31 dicembre 1873: le monete, che portano il monogramma composto dalle iniziali bn (Banca Nazionale), sono appunto di questo periodo. Se ne hanno però ancora col millesimo 1874 e 1875, perché l'appalto della zecca di Milano da parte della Banca Nazionale cessò definitivamente soltanto allo scadere di quest'ultimo anno [Carboneri 1915b, pp. 287-288]. Per quanto concerne, invece, la zecca di Napoli, il controllo completo passò alla Banca Nazionale solo dopo il 10 gennaio 1863, quando la società Estivant consegnò l'ultimo quantitativo di monete che si era impegnata a produrre [Mastroianni Bovi 1989, p. 433].
Le monete da 5 lire in argento furono coniate dal 1861 al 1878, complessivamente, in 69.009.287 pezzi, per un totale di 345.046.435 lire, compresi i 5.555 pezzi coniati a Torino nel 1866 con altra data ed esclusi i pezzi del 1870 per Roma, di cui non si conosce il quantitativo. Più precisamente: 21.472 pezzi del 1° tipo, per un totale di 107.360 lire, e 68.987.815 del 2° tipo, per un totale di 344.939.075 lire [Carboneri 1915b, pp. 876-882, tabb. B, B1; Simonetti III, pp. 17, 65, nota 5].
Tra le monete aventi la legenda del contorno composta dai tre motti fert, in incuso tra nodi e rosette, se ne possono trovare alcune in cui, seppur raramente, per la consunzione, deformazione o rottura, dovuta all'usura delle lettere f, e, r e t poste in incuso sulla ghiera, uno, due o tutti i tre motti si presentano alterati in fekt, fent, fept, feri, ffkt, ffrt, fih, fikt, fkrt, iiki o iirt. Più frequentemente, invece, può capitare che, per l'errata disposizione della ghiera, vi siano delle monete che presentano la legenda del contorno impressa al contrario, ossia quando i tre motti fert appaiono capovolti rispetto alla faccia del dritto.